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Novembre

d'Essai

 

Martedì

4 novembre 2014

Ore 21.00

 

 

Ingresso € 4,00

 

Abbonamento

a 4 spettacoli € 12,00

 

 

 

The Wolf of Wall Street

 

Un film di Martin Scorsese.

Con Leonardo DiCaprio, Jonah Hill, Margot Robbie, Matthew McConaughey, Kyle Chandler.

 

 

Jordan Belfort è un broker cocainomane e nevrotico nella New York degli anni Novanta. Assunto dalla L.F. Rothschild il 19 ottobre del 1987 e iniziato alla 'masturbazione' finanziaria da Mark Hanna, yuppie di successo col vizio della cocaina e dell'onanismo, è digerito e rigettato da Wall Street lo stesso giorno in seguito al collasso del mercato.

 

Ambizioso e famelico, risale la china e fonda la Stratton Oakmont, agenzia di brokeraggio che rapidamente gli assicura fortuna, denaro, donne, amici, nemici e (tanta) droga. Separato dalla prima moglie, troppo rigorista per reggere gli eccessi del consorte, Jordan corteggia e sposa in seconde nozze la bella Naomi, che non tarda a regalare due eredi al suo regno poggiato sull'estorsione criminale dell'alta finanza e la ricerca sfrenata del piacere. Ma ogni onda cavalcata ha il suo punto di rottura. Perduti moglie, amici e rotta di navigazione, Jordan si infrangerà contro se stesso, l'inchiesta dell'FBI e la dipendenza da una vita 'tagliata' con cocaina e morfina.

 

Alla fine di un film di Scorsese ci si convince ogni volta che non si possa andare più in là, che non ci sia più spazio per un'altra inquadratura dopo l'immersione subacquea de Le royaume des fées (Hugo Cabret), che non ci sia un altro sguardo ammissibile dopo gli occhi celesti di un orfano dietro agli orologi e aggrappati alle lancette che scandiscono l'unico tempo che può vivere. Poi vedi The Wolf of Wall Street, commedia nera e stupefacente senza redenzione, e ti accorgi che è possibile. Navy Seal del cinema, Martin Scorsese si spinge daccapo oltre e questa volta negli angoli oscuri dove vivono le cose (molto) cattive e dove ingaggia una battaglia ad alto volume con gli avvoltoi di Wall Street, immorali gangster ma socialmente più accettabili di un gangster.

 

Jordan Belfort, trader compulsivo impegnato a consumare (letteralmente) il mondo, è in fondo il fratello di quel bravo ragazzo di Henry Hill (Ray Liotta in Goodfellas), che proprio come lui non è frutto dell'immaginazione ed è materia prima su cui si edifica il film. Recitato in prima persona da Leonardo DiCaprio, imperiale nella performance e imperioso nel film, The Wolf of Wall Street afferra in piena e frontale autarchia un personaggio incontinente e talmente brillante che non smette di rilanciare e sperimentare i suoi limiti.

 

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Novembre

d'Essai

 

Martedì

11 novembre 2014

Ore 21.00

 

Ingresso € 4,0

 

Party girl

 

Un film di Marie Amachoukeli, Claire Burger, Samuel Théis.

Con Angélique Litzenburger, Joseph Bour, Mario Theis, Samuel Theis, Séverine Litzenburger.

 

 

Angélique ha sessant'anni e per vivere intrattiene da sempre i clienti di un night club. Nel frattempo ha anche fatto quattro figli, la più piccola dei quali è stata data in affido a un'altra famiglia.

 

Ora i clienti si sono fatti più rari, ma Michel, un suo habitué, dopo un periodo di assenza dalle serate al night, torna a ribadirle il suo amore e a chiederle di sposarlo. Angélique sembra dunque apprestarsi a cominciare una nuova vita, in una vera casa, accanto a un uomo che le vuole bene.

 

Può una donna che ha vissuto un'esistenza notturna, perennemente immersa in una festa affollata, disimpegnata, sicuramente anche dolorosa, cambiare se stessa, a quell'età, al punto da rimettersi totalmente in discussione? Se questa è la domanda che affiora in superficie, ciò che resta al di sotto dell'esplicito è più interessante e ha a che vedere con la permanenza di Angélique in una stagione della vita normalmente associata alla giovinezza. Mentre i suoi figli crescono e sperimentano i compromessi richiesti dal lavoro e dalla vita di coppia e di famiglia, la matriarca resta una ragazzina, che s'interessa ai braccialetti e dorme in una stanzetta con le sue bambole, sprofondata in una visione romantica e immatura dell'amore, destinata a scoppiare come una bolla urticante.

 

Ritratto di Angélique Litzenburger firmato dal figlio Samuel Theis in stretta collaborazione con due compagne della Fémis, Marie Amachoukeli e Claire Burger, il film si muove sul confine tra realtà e finzione, fedele alla verità dei personaggi coinvolti ma anche pronto a romanzare e a lasciar entrare il contributo degli attori, dell'ambiente e dell'imprevisto. Un altro confine, questa volta geografico, ospita il tutto: è la regione della Lorena, tra Francia e Belgio, Germania e Lussemburgo, una regione di contraddizioni, dove convivono il ricordo recente delle miniere e le nuove realtà dell'immigrazione.

 

Angélique stessa è una contraddizione, o meglio un enigma, dai confini labili. Libera o egoista? Generosa o irresponsabile? Il film non risponde ma fotografa, con la macchina addossata alla protagonista. Dall'obbiettivo escono insieme il dramma sociale e la commedia, il romantico e il grottesco. Il limite, però, fa capolino all'inizio e non fa che confermarsi strada facendo, perché, a dispetto delle sfumature, il registro è uguale a se stesso e il film percorre una strada nota da subito e poco originale (il confronto con il recente Gloria, ad esempio, premia il cileno). Nato come approfondimento di un esercizio scolastico, Party Girl è un racconto onesto e un buona terapia famigliare, ma manca l'empatia che poteva portarlo oltre.

 

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Novembre

d'Essai

 

Martedì

18 novembre 2014

Ore 21.00

 

Ingresso € 4,0

 

A proposito di Davis

 

Un film di Joel Coen, Ethan Coen.

Con Oscar Isaac, Carey Mulligan, Justin Timberlake, Ethan Phillips, Robin Bartlett.

 

 

C'era una volta la capitale indiscussa del folk, quel Greenwich Village a partire dal quale Bob Dylan avrebbe cambiato la storia della musica.

 

Ma questa storia comincia prima, quando la musica folk è ancora inconsapevolmente alla vigilia del boom e i ragazzi che la suonano provengono dai sobborghi operai di New York e sono in cerca di una vita diversa dalla mera esistenza che hanno condotto i loro padri. Llewyn Davis è uno di questi, un musicista di talento, che dorme sul divano di chi capita, non riesce a guadagnare un soldo e sembra perseguitato da una sfortuna sfacciata, della quale è in buona parte responsabile.

 

Anima malinconica e caratteraccio piuttosto rude, Llewyn è rimasto solo, dopo che l'altra metà del suo duo ha gettato la spugna nel più drastico dei modi, e ha una relazione conflittuale con il successo, condita di ebraici sensi di colpa, purismo artistico e tendenze autodistruttive. Appartiene alla categoria più fragile e più bella dei personaggi usciti dalla mente dei fratelli Coen, come Barton Fink o Larry Gopnik (A serious man), così come il film appare immediatamente come il ritorno ad un progetto più intimo rispetto all'ultimo Il Grinta. E tuttavia A proposito di Davis, nei confini di uno spazio limitato a pochi ambienti (l'unica possibilità di fuga si rivela un altro fallimento) e di una sola settimana di tempo (arrotolata in una circolarità tipicamente coeniana), è una celebrazione dell'arte - della musica, ma anche e più che mai del cinema - amara e sentita, tutt'altro che contenuta.

 

Per quanto il lavoro di rievocazione storica dell'ambiente musicale e degli ambienti in generale (è il 1961, l'anno di Colazione da Tiffany, qui omaggiato dalle finestre che si aprono sulle scale antincendio e da un gatto senza nome, destinato a riuscire nell'impresa giusto per far sentire Llewyn ancora più perdente) sia uno dei protagonisti indiscussi del film, è in un una scena molto diversa che si nasconde il suo cuore. Su un palco in penombra, senza appigli che non siano una sedia e una chitarra, e ad un certo punto più nemmeno quest'ultima, Llewyn canta la sua struggente ballata per il produttore. È un momento di emozione pura, al termine del quale, il potente interlocutore guarda il protagonista e sentenzia: non si fanno soldi con quella roba.

 

E in questa chiusa comica e micidiale, i Coen dicono tutto, dell'arte e dell'industria, forse anche del loro stesso film, con la consueta ironia e il consueto cinismo.
Ispirato in parte al memoir del folk singer Dave Van Ronk ("The Mayor of MacDougal Street), A proposito di Davis è anche una piccola summa del cinema precedente dei fratelli di Minneapolis, fatto di incontri enigmatici, facce incredibili, bizzarre riunioni canore attorno ad un microfono, tragicomici doppi. Perché in due è meglio.

 

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Novembre

d'Essai

 

Martedì

25 novembre 2014

Ore 21.00

 

Ingresso € 4,0

 

Il violinista del diavolo

 

Un film di Bernard Rose.

Con David Garrett [I], Jared Harris, Andrea Deck, Joely Richardson, Veronica Ferres.

 

Siamo agli inizi dell'Ottocento. Il violinista Niccolò Paganini dissipa le sue energie fra donne, gioco d'azzardo e stupefacenti. Quel che è peggio, nessuno sembra capire né apprezzare il suo talento. Nessuno, tranne un certo Urbani, mefistofelico agente (del demonio?) che lo convince a firmare un contratto capestro: Urbani garantirà a Paganini il successo, e il "violinista del diavolo", come verrà chiamato il musicista, dopo la morte gli consegnerà la sua anima.

 

Il regista inglese Bernard Rose, che aveva già affrontato il mondo della musica classica in Amata immortale e con The Kreutzer Sonata, trova nella superstar del violino David Garrett l'ispirazione per parlare non solo della dannazione intrinseca al talento, in particolare quello musicale, ma anche della dimensione divistica di Paganini, che oltre ad aver inventato un modo rivoluzionario di suonare il suo strumento si era anche appropriato della ribalta, un po' come sarebbe successo molti anni dopo a Jimi Hendrix e la sua chitarra elettrica.

 

Tuttavia l'intuizione di raccontare Paganini come l'antesignano di ogni rock star non viene estesa all'intero contesto filmico: se da un lato Garrett, con i suoi capelli lunghi, i suoi occhialetti tondi e il suo sguardo perennemente sballato pare un Axel Rose catapultato nel 19esimo secolo, dall'altro l'iconografia resta quella tradizionale, senza le invenzioni autoriali del Milos Forman di Amadeus o le riletture rock di Baz Luhrmann. È importante sottolineare che questo non è un film su Niccolò Paganini, volutamente inconoscibile dall'inizio alla fine (alla Salvatore Giuliano, per azzardare un paragone alto), e rivelato solo attraverso la musica: è fondamentale che a interpretarlo sia un violinista vero come Garrett, anche autore della colonna sonora, perché le sue performance nel film portano la narrazione ad un altro livello e ci danno immediatamente il senso di quale sia il problema di fondo, ovvero l'ingestibilità di un talento spropositato nella cornice della quotidianità.

 

Anche Jared Harris, che ha il ruolo di Urbani, si limita a farsi maschera, o meglio, proiezione dell'ambizione e insicurezza di Paganini. Tutti gli altri sono figurine da libro pop up, evocato esplicitamente dall'inquadratura del figlio di Paganini che manovra un teatrino. Rose avrebbe dovuto spingere di più sulla caratterizzazione grottesca di quelle figure di contorno, accentuandone proprio la dimensione teatrale, come ha fatto Tim Burton con il suo Sweeney Todd.

 

Così come avrebbe dovuto imprimere un ritmo musicale più serrato (entro una durata filmica più breve) alla narrazione: se Paganini fosse a bordo schermo, si metterebbe a scandirgli il tempo per imporgli il suo stile, a tratti quasi sincopato. Il violinista del diavolo resta comunque un'interessante riflessione sulla natura del talento, il culto della celebrità, i prodromi dell'industria musicale e la differenza fra l'intrattenitore e l'artista. Peccato che la forma non aderisca meglio al contenuto: ma non sono molti i Paganini, nemmeno fra i registi.

 

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Ottobre

d'Essai

 

Martedì

2 Dicembre 2014

Ore 21.00

 

 

 

Ingresso € 4,00

 

Se chiudio gli occhi

non sono più qui

 

Un film di Vittorio Moroni.

Con Giorgio Colangeli, Beppe Fiorello, Mark Manaloto, Hazel Morillo, Vladimir Doda.

 

Sedicenne con una forte passione per l'astronomia, trasmessagli dal padre, morto in un incidente stradale, Kiko vive con la madre filippina, Marilou, e il suo nuovo compagno, Ennio, un caporale che gestisce cantieri edili, sfruttando manodopera clandestina.

 

A scuola rischia di essere bocciato per il secondo anno consecutivo e il rapporto con il patrigno, che lo forza a lavorare come manovale, è quantomai teso anche per via dei suoi modi violenti. Un giorno, Kiko incontra Ettore, un insegnante in pensione sulla sessantina, che gli dice di essere un vecchio amico del padre e di volerlo aiutare nello studio.

 

È la storia di un'adolescenza tremante quella raccontata da Vittorio Moroni, la cronaca sincera e diretta di un'esistenza incerta, dispersa nella periferia friulana tra cantieri, scuola e una bar-stazione di benzina in cui, insieme all'anomala famiglia di Kiko, vive un gruppo di immigrati clandestini. Lavoro di accensioni e di inganni, di incontri e scontri, Se chiudo gli occhi non sono più qui si interroga su temi abnormi quali la solitudine dell'uomo di fronte all'universo (apertamente citato il Giacomo Leopardi di "Canto notturno di un pastore errante dell'Asia"), il bisogno di redenzione insito nel carattere umano, l'importanza di avere una guida nel momento cruciale della crescita.

 

Anche a livello più basico il tiro rimane alto, perché ogni nuova circostanza narrativa nasconde in realtà una problematica più o meno centrale della contemporaneità: si va dall'integrazione degli adolescenti di seconda generazione allo sfruttamento dell'immigrazione clandestina, dall'importanza della cultura alla dispersione scolastica. Nonostante un tale spettro tematico, il film gode comunque di una buona fluidità, di una distensione di racconto che è diretta conseguenza di una sceneggiatura (del regista e di Marco Piccarreda) ben costruita e sufficientemente credibile in tutta la progressione.

 

In definitiva, Moroni convince con il ritratto di un adolescente sospeso in tutti gli ambiti a cui ha accesso: scuola, famiglia, amicizie. A ben vedere, Kiko riesce a vivere pienamente soltanto dentro ad un vecchio autobus dismesso, quasi un santuario eretto alla memoria del padre, dimora dell'affetto molto più di un bar-stazione che dovrebbe fare le veci di una casa vera. Attraversato da quella vena di malinconia che è tutt'uno con la giovinezza rappresentata, il lavoro rappresenta l'ingresso del regista valtellinese in un cinema più conciliato, ma non per questo meno interessante e coinvolgente.

 

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